domenica 13 maggio 2012

La terza stella, gli scudetti di Zeman e il mestiere del tifoso

La meritata vittoria dello scudetto 2012 da parte della Juventus, la squadra che nella storia del campionato italiano di calcio, è bene ricordare, ha avuto quasi sempre un ruolo da protagonista assoluto, ha riproposto il leitmotiv cavalcato fin dal primo anno di presidenza da Andrea Agnelli: gli scudetti erano 29 e adesso per logica conseguenza diventano 30.
E in effetti, a prescindere da ogni valutazione di carattere ufficiale, la maggior parte dei tifosi della vecchia signora ha sfoggiato da subito il “nuovo” palmares comprensivo dei due scudetti revocati dalla Federcalcio per slealtà sportiva e illecito strutturale.
Tutto questo, al di là di ogni ampollosa questione di principio, trova un naturale approdo nella quotidianità italiana, laddove qualsiasi verdetto ufficiale assume sempre una connotazione variabile, almeno nell’immaginario della gente.
Del resto, cosa dovrebbe fare il povero tifoso medio(nella fattispecie juventino) degli anni duemiladieci!? Incalzato, titillato, provocato, persino stordito da telecronache di parte, testate nazionali faziose, emittenti locali che tirano al campanile, pagine di sfottò imbarazzanti su social network e sulla rete in generale, non può che scegliere il suo pezzetto di personale guerra santa che lo spinge in maniera automatica a considerare nemico l’avversario, non più semplicemente(e possibilmente)da battere, ma da umiliare.

Così, questa terrificante, speculare simbiosi con la politica nazionale degli ultimi vent'anni, ha fatto praticamente saltare tutti i principi che avevano reso questo sport popolare nell’accezione letterale del termine. Lo scambio della maglietta, il rispetto per i campioni altrui, il gusto della giocata fine a se stessa, la ormai dimenticata tradizione della seconda squadra del cuore, il non infierire quando l’avversario è in disarmo, han cominciato a non avere più senso. Tanto che, il più elementare fair play del campo, che prevedeva il gesto di buttare fuori la palla quando un avversario cadeva a terra dopo un infortunio, non solo subisce la stigmatizzazione a suon di fischi dei tifosi presenti allo stadio, ma diventa soprattutto l’occasione degli stessi professionisti per poter spezzare il ritmo della partita quando si è in vantaggio.
Senza considerare l’origine di questo degrado, derivante dalla malafede degli addetti ai lavori, quali almeno l’80% dei presidenti di calcio, caricature uscite direttamente dal rimpianto “Mai dire gol”(sarà una mia impressione, se ci fossero più Campedelli del Chievo, si vivrebbe meglio...), dalla pletora di ex giocatori che per campare cominciano a fare opinione, dagli allenatori che difendono il loro lavoro oltre ogni limite consentito(anche di decenza), e da quei piccoli giornalisti tifosi che per il solo fatto di seguire la squadra per tutta la giornata si sentono depositari di chissà quale verità.

Allora, come se ce ne fosse stato bisogno, fare il tifoso o il supporter come lo chiamano all’estero, diventa un mestiere a tutti gli effetti.
E… cosa drammatica, arrivati a tale condizione, il tifo inevitabilmente, anziché aggiungere un piacere per un momento che lo scrittore Sandro Veronesi(juventino tra l’altro), chiamerebbe di “trascurabile felicità”, finisce invece per comportare uno stress che s’aggiunge alle normali difficoltà quotidiane.
E nessuno si meraviglia quando all'inizio di questo maggio sonnolento, il presidente della squadra neo campione d’Italia, anziché gioire per la sua prima vittoria da massimo dirigente, preferisce rinfocolare una polemica sterile, non appena la sua squadra è tornata vincente.
Perché la vita corre veloce, non si gioisce neppure più per una bella vittoria sul campo, non c’è tempo. A quel punto ciò che interessa, è la nuova(?)schermaglia del momento: sono 30 scudetti o 28(alzi la mano chi si ricorda d’emblée quanti ne han vinto le altre grandi europee, come il Real Madrid o il Bayern di Monaco)? Oppure sono 22 come provocatoriamente suggerisce un maestro di calcio(e di pensiero) quale Zdenek Zeman?
Già, come sono lontani i tempi in cui ci si giocava lo scudetto alla fine della primavera, e magari rischiavi pure di vedere la squadra perdente, uscire comunque tra gli applausi, come in un bellissimo Napoli-Milan sul finire degli anni '80...

Ci sarebbero tutti gli estremi per lasciar perdere: non è una questione vitale, ormai l’estate comincia a fare capolino, e il campionato di calcio, proprio oggi, finalmente(?) volge a conclusione… 
Eppure, quando mi allontano dalla tv, dai giornali, dai media, e vado a giocare a pallone in un campetto fuorimano dal centro, in provincia, tutti questi dubbi(e ahimè anche brutte certezze), fortunatamente vanno via.
Vanno via di fronte alla semplicità con cui tanti ragazzi, anche in tenerissima età, lasciano a casa la playstation e corrono appresso ad una palla a volte anche spellacchiata, vestiti con improbabili mise che sembrano uscite da un magazzino sportivo in disuso, castigate oltremodo da insopportabili pettorine. Lì, non c’è bisogno dell’arbitro.
E tutti quei principi saltati nel calcio di professione, ritornano naturalmente a posto, non più corrotti da quello che si vede e si sente, ma rigenerati da quello che si fa.
Fosse per me, all’immagine di una nota birra che pubblicizza un divano per seguire la partita, di contro ci metterei sempre questa di chi nel suo piccolo prova a dare del tu al pallone.
E' più bello, e forse è più giusto. 

** La foto di copertina "I tifosi sono i nuovi mostri" (Valencia, 2010) è di Fabiana "Geomangio"

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